Erika, quando il Pilates incontra l’anima

keira

di Romina Lardo

Quando ho conosciuto Erika mi trovavo in un momento particolare della mia vita.

Ho sempre odiato i momenti particolari, persino nel suono delle parole con le quali lo esprimiamo. Una locuzione, semplice, concisa con la quale ci chiudiamo ancora prima di aprirci.

Ed è così che è iniziato il mio percorso con lei. Chiusa al punto giusto, nella particolarità di quel mio momento.

Mi iscrissi, grazie ad un’amica, al suo corso di pilates. Un mese, il giusto tempo per abbandonarlo.

E’ così che spesso accade, nulla può contro la mia pigrizia. Ma agli incontri predestinati, nessuno può sottrarsi!

Ho iniziato a darle fiducia per accorgermi, poi, che la fiducia la stavo ridando a me.

La osservavo, come se volessi rubarle il segreto di quel benessere che mi trasmetteva.

La prima cosa che mi ha colpito di Erika è stata la sua postura. Non per la bellezza che emanava, né perché facesse da sostegno alla sua lunga chioma castana.

Guardarla mi dava e mi da leggerezza e allo stesso tempo fermezza. Non esiste perimetro migliore di quello del nostro corpo, lungo il quale poter disegnare le nostre emozioni.

E, così, provavo ad imitarla.

Mentre lei m’insegnava a respirare. Che cosa strana. Nessuno mi ha mai insegnato come farlo. Come se fosse semplice. Nessuno fino a quando non ho incontrato Erika.

Ed ho capito che prima ancora di risultare goffa nell’adottare quella postura, avrei dovuto affidarmi a lei, alla sua voce, al tempo dei suoi respiri. Ho capito che non esiste una sola respirazione.

Ho capito che, come nella vita , come nelle relazioni, anche i respiri hanno diverse funzioni.

Ho imparato a rallentare il battito cardiaco, ho imparato a svuotare l’energia negativa, ho imparato a riempirmi di luce.

Ma quello che Erika mi ha insegnato è che non esistono limiti insormontabili.

Erika non è un’istruttrice qualunque. Me l’hanno detto i suoi occhi, prima ancora dei suoi racconti.

Gli occhi, non hanno postura, non hanno respiri da trattenere. Eppure, spesso, contengono più storie di quanto le parole potrebbero costruire. E mentre io leggevo nei suoi, lei me ne ha regalati di nuovi. Sì, occhi nuovi. Ma non come comunemente intendiamo. E lo ha fatto, regalando a me e alle mie compagne di corso, una benda. Strano, per regalarmi occhi nuovi ha dovuto coprire quelli veri. Ho imparato che oltre al dono della vista, possediamo gli occhi del cuore.

E il cuore, si sa, non ha limiti. Gli occhi che ho imparato ad usare riescono a vedermi oltre il posto in cui mi trovo.

Ho imparato a conoscere il mio corpo, a sentirlo vibrare. Ho avuto il coraggio di spingermi oltre. Oltre. Di pochi centimetri, millimetri. Ma oltre. Un oltre che ha assunto il sapore di un thè, verde e con zucchero di canna. Difronte avevo i suoi occhi. Ho deciso d’incontrarla perché più di me, la mia “penna” aveva voglia di raccontarla. Ero curiosa, del suo lavoro, della sua vita. Ed io che credevo di bere solo del thè su di una sedia , al tepore di un luogo stranamente poco affollato, mi sono ritrovata a viaggiare. Ho fatto danza con lei, ho persino indossato quegli strani abiti che indossano le ballerine.

Ho sentito l’emozione di un palco. Il rumore dei salti e la trepidazione. Ho preso un aereo e sono andata a New York.

Ho sentito il suo dolore, quello dell’infortunio. Ma non mi sono rialzata subito. Ho voluto sentirlo tutto. Solo dopo ho capito perché avesse tanto amore per il suo lavoro.

E’ così che accade, le migliori strade si percorrono dopo una forte caduta. Erika è caduta da danzatrice e si è rialzata da istruttrice di Pilates. Ma nel rialzarsi ha raccolto quanto di più umano c’è nella sofferenza. Questa è la sua forza. Lei ti invita a sdraiarti sul tappetino, solo perché è da lì che lei arriva. Lei ti invita a stringere i denti, solo perché sa che, dopo, la tensione scemerà.

Lei t’invita a respirare perché il respiro le ha dato la vita. Ho viaggiato, ascoltandola, attraverso le stanze della sua memoria. Ho sostato in alcune di esse quando le lacrime che cercava di trattenere le faceva rallentare il ritmo del suo racconto.

Ho attraversato una stanza nera, ho sentito il suo tono incupirsi. E d’improvviso ho visto quel nero illuminarsi. Luccicava. Riuscivo a sentire persino le note musicali delle sue lezioni. Ho attraversato, con lei, la stanza dell’attesa. Ho immaginato una grande finestra spalancata e senza dirle nulla ho preso quel nero e l’ho buttato via insieme a tutte le mie paure.

Ho conosciuto la sua famiglia. Sua madre. I suoi nipoti. Il suo compagno. Quando sono ritornata a quel thè e ho rivisto la sua postura ho capito che in realtà, è soprattutto conseguenza di un duro lavoro nel tenere tutto in piedi.

Erika è un’imprenditrice. Un’imprenditrice vagabonda, come ama definirsi. Un’imprenditrice di anime.

Nella sua azienda, nessun dipendente. Solo risorse. Risorse umane. Nessun welfare, solo reali benefici. Nessun contratto, solo libere scelte. Nessun fatturato né quotazione in borsa, solo utili proficui redistribuiti nel tempo e fra tutti. Solo un aspetto la rende simile alle altre imprese: il colloquio.

Ma in quel momento non puoi che innamorarti dei suoi dolci occhi.

Grazie Erika, per avermi raccontato il tuo lavoro. Che possano le mie parole restituirti quanto tu e il tuo Joseph Pilates mi avete donato.